2014: è tempo di bilanci, e qualche domanda
Nel suo recente intervento per i saluti istituzionali prima delle festività, Il Presidente Giorgio Napolitano, che ha fatto intendere che procederà a dimettersi dalla carica a conclusione del semestre di Presidenza italiana della UE, ha avuto parole di apprezzamento e sostegno all’azione del Governo, e per il suo coraggio sulla strada delle riforme. E ha insistito sulla necessità di stabilità, di un clima di confronto non pregiudiziale tra le forze politiche di maggioranza e opposizione, e nella dialettica tra Governo e parti sociali per fronteggiare i gravi problemi del Paese. Si è soffermato sulla urgenza di un recupero di credibilità e sobrietà della politica, ma ha stigmatizzato anche l’antipolitica come patologia potenzialmente eversiva, riguardo al pericolo di uno svilimento dei valori della democrazia e di quelle basi su cui deve fondarsi un rapporto di fiducia, libero e dialettico, tra cittadini ed istituzioni.
Sono le grandi e talvolta drammatiche questioni con cui si è misurata la Presidenza Napolitano nell’arco dei sette precedenti, e poi di questi primi due anni del suo secondo mandato: coprire con la sua autorevolezza di respiro internazionale i deficit di credibilità accumulati dalla politica per la mancata attuazione di riforme strutturali di modernizzazione del Paese, e contemporaneamente adoperarsi, nell’ambito delle sue prerogative, perché il sistema politico ed istituzionale uscisse dallo stato di ingessatura e contrapposizione paralizzante e si aprisse una stagione di innovazione e risanamento, ad ogni livello, morale, politico, economico, sociale, culturale, generazionale
Siamo tuttora un paese in equilibrio critico, per la stato del nostro debito pubblico, la recessione economica, i problemi della disoccupazione, specie giovanile, le scarse capacità competitive e di efficienza su fattori vitali per la crescita, l’incremento della povertà per moltissime famiglie e una generale perdita di potere d’acquisto per milioni di lavoratori, unitamente ai problemi di illegalità, lavoro nero, evasione fiscale, corruzione, criminalità organizzata: occorre un orizzonte di lungo periodo per raccogliere risultati tangibili, ma c’è bisogno di un lavoro immediato e fattivo per invertire la deriva di un declino del sistema paese, e recuperare una reputazione a livello internazionale.
Se si assumono questi elementi di contesto, peraltro imprescindibili dato che fotografano la realtà del Paese, non si può che convenire con le valutazioni di Napolitano: il Governo Renzi ha segnato un elemento di forte cambiamento, impresso energia all’azione dell’esecutivo, offerto una “speranza” ad un’opinione pubblica sfiduciata e rancorosa, e sbloccato lo stallo in cui versavano i grandi temi delle riforme istituzionali e della riforma della legge elettorale. Si può avere riserve sugli stili adottati dal premier Renzi, per un fare un po’ guascone, i modi sbrigativamente semplificativi, ed i toni spesso enfatici sulle cose “mai fatte prima”: ma va riconosciuta una capacità di dinamismo ed una volontà di innovazione che interpretano non solo un’esigenza reale del paese, ma intercettano anche le aspettative di tanta parte della pubblica opinione, cittadini e imprese, perché si veda finalmente qualche risultato.
Trovo in questo, al di là dei tratti temperamentali che pure ci sono, una spiegazione del volume di fuoco di impegni da attuare a scadenze strettissime con cui Renzi ha teso a presentarsi ai cittadini, e con cui cerca di mantenere una sintonia tra questi e l’azione del Governo: l’annuncite più che colpa grave, come vorrebbero i detrattori, va derubricata a peccato veniale, ricorrendo al quale si cerca di ridurre lo scarto che obiettivamente è rilevabile tra quantità di enunciazioni di intenti e risultati dati per raggiunti, rispetto alle cose effettive concretamente realizzate.
C’è tuttavia un aspetto che pretende un’analisi più attenta e approfondita, ed è la “qualità” delle azioni di riforma. Su questo il Governo rischia un approccio troppo condizionato dall’imperativo del fare, oltre che dagli equilibri per garantirne l’approvazione: è vero che il tempismo è fattore importante nel dialogo con l’Europa, e per l’allentamento dei vincoli di rigidità finanziaria può essere utile dare il segnale di una ferma volontà di procedere, ma per il “bene comune” del sistema paese, nella prospettiva del medio termine, fa differenza che si facciano buone riforme, piuttosto che riforme pasticciate. Valga per tutte il riferimento alla legge sul riordino delle Province, da cui corriamo il rischio conseguano scarsi risparmi, ed un aumento delle diseconomie e disfunzioni istituzionali.
A maggior ragione ciò vale con riguardo alla Riforma del Senato, e per la nuova legge elettorale: quello che si sta profilando, come impianto, è un assetto assai vicino al modello del “Sindaco d’Italia”, molto caro a Renzi, che ne ha parlato spesso apertamente, ma su cui è lecito interrogarsi se sia il sistema migliore per la complessità di un Paese. Tra l’altro, con la prospettiva di una significativa torsione rispetto al modello costituzionale di check and balance.
Su questo, e altro, l’auspicio è che, consolidata l’autorevolezza del Governo, in Italia e in Europa, eletto il nuovo Presidente della Repubblica, confermato l’orizzonte della Legislatura al 2018, si riapra una discussione vera e seria.