30 Mag

In Regione

Scheda tratta da: Il “Parlamento” regionale, di Anna Righi Bellotti, Vittoria Maselli Editore, 2012.

Giuliano Barbolini entra in Consiglio Regionale nel 1990, tra le liste del PCI, all’inizio della V legislatura, avendo già alle spalle una ricca esperienza politica e di amministratore. Eletto in Consiglio provinciale a Modena nel 1977, nella legislatura 1980/85 è Assessore alla formazione professionale, istruzione, cultura e successivamente anche sanità, e, dal 1985 al 1990, ricopre la carica di Presidente della Provincia di Modena.

Nato a Carpi (MO) il 20 agosto 1945, laureato in Lettere classiche, dopo esperienze formative e di lavoro come insegnante, borsista ricercatore presso la Facoltà di Archeologia dell’Università di Bologna e bibliotecario alla Biblioteca Estense e Universitaria di Modena, dal 1973 è dipendente del Comune di Modena, come Ispettore ai servizi culturali e, dal 1975, capo-gabinetto del Sindaco Germano Bulgarelli fino al 1980. Di formazione cattolica e moderata si iscrisse al PCI nel 1972: un approdo politico, ideale e programmatico, dopo la stagione di passioni e rotture segnate dal 1968, cui si accompagna, come per tanti altri giovani di quel periodo (John Fraser ne ha parlato in un saggio “L’intellettuale amministrativo nella politica del PCI”, Liguori,1977) la scelta del lavoro negli enti locali e nelle regioni in cui quel partito è forza di governo, per contribuire a modernizzare lo Stato, ampliare le politiche sociali, promuovere, con lo sviluppo territoriale, più occupazione, equità, partecipazione.
Con la formazione della Giunta regionale il 18 luglio 1990 è nominato Assessore alla sanità.

All’inizio degli anni ’90 la sanità in Emilia-romagna aveva difficoltà oggettive: si era in presenza di un governo nazionale che stava “ridimensionando” il servizio sanitario pubblico pensato con la legge n.833 del 1978, con i tagli operati dal Ministro De Lorenzo e, contemporaneamente, c’erano crescenti problemi di criticità finanziaria. Si trattava di difendere con forza l’ispirazione originaria della legge n.833/1978 ma anche agire nella dimensione regionale per un riordino del Servizio sanitario in termini di maggiore efficienza e massima appropriatezza ed efficacia di rendimento.

L’assetto della sanità in Emilia-Romagna, a quella data, era strutturato su 41 Unità sanitarie locali (USL), ciascuna con sette servizi sanitari e cinque amministrativi. Gli ospedali erano 96, i dipendenti del Servizio Sanitario Regionale erano 53.000, ed i medici di base e pediatri convenzionati circa 4.000. Gli organi di gestione delle Unità sanitarie (Comitati di gestione) erano eletti dal Consiglio comunale o dall’Assemblea dell’Associazione dei comuni, tra cittadini scelti per esperienza e competenza, in base a candidature proposte dai consiglieri delle diverse forze politiche rappresentate.

Un sistema complesso, di elevata affidabilità e riconosciuta qualità, che era tuttavia costretto a misurarsi con i problemi derivanti dalla sottostima delle risorse assegnate dalla legge finanziaria nazionale e, più in generale, con i vincoli di compatibilità economica imposti dai governi centrali.

Furono anni vissuti intensamente, si dovevano affrontare più fronti di dialettica politica e con diversi interlocutori: innanzitutto sul piano nazionale l’accusa (in realtà strumentale) di una spesa eccessiva per ridondanza di servizi, e poi per le oggettive difficoltà a implementare processi di razionalizzazione sull’insieme della rete diffusa dei servizi e presidi. Scelta doverosamente necessaria, ma resa più difficile da conseguire per i pessimi esempi di sprechi e corruzione emergenti a livello nazionale (emblematico il caso dei coniugi Poggiolini) e per le resistenze localistiche e gli interessi (politici, professionali e corporativi) variamente coinvolti sui territori.

La sfida era grande, e per mantenere l’opportunità di un governo dei processi è stato necessario assumere responsabilità scomode, che hanno però prodotto risultati molto importanti: con la riorganizzazione e razionalizzazione degli assetti, delle strutture e dei servizi, si è contestualmente avuto cura di definire principi, criteri e procedure volte a un graduale riordino del Servizio sanitario regionale, con l’obiettivo di garantire la qualificazione delle prestazioni e più elevati livelli di efficienza nel funzionamento del sistema.

Successivamente, proprio questi risultati sono stati oggetto del riconoscimento pubblico da parte del Centro Pio Manzù, nell’ottobre 1995, all’operato dell’Assessorato.

In questo accidentato percorso (scandito dai decreti del 1990 e 1991 per il “commissariamento” delle USL con la nomina di Amministratori Straordinari, dalla legge delega 23 ottobre 1982 n.421 per la razionalizzazione e la revisione della disciplina in materia sanitaria, dai decreti di attuazione n.502/1992 e n.517/1993, con le norme cui le Regioni dovevano uniformarsi) l’Emilia-Romagna ha avuto la capacità ed il coraggio politico ed istituzionale di innovare e riformare, però salvaguardando e rafforzando un sistema di sanità e welfare ancorato ai principi di uguaglianza, universalismo, solidarietà, sostenibilità economica.

La legge regionale 12 maggio 1994, n.19, d’iniziativa dell’Assessorato e della Giunta, ha così disegnato un nuovo assetto del sistema sanitario regionale, quale è ancora oggi, puntando ad una concentrazione delle risorse tramite la creazione di Aziende USL che, per dimensioni territoriali e capacità di offerta ( come un territorio provinciale) consentono di ricondurre la programmazione sanitaria su aggregazioni di popolazione significative, sia sotto il profilo funzionale che economico, tenendo ferma la centralità del Distretto quale articolazione organizzativa territoriale al servizio del cittadino.

Anche la rete ospedaliera veniva fortemente razionalizzata, con la previsione di una chiusura/riconversione funzionale di ben 18 strutture nel quinquennio (32 in una proiezione decennale, con la costruzione di 8 nuovi ospedali coi fondi ex art. 20 della finanziaria 1988), il riconoscimento di autonomia gestionale ai presidi nell’ambito delle diverse Aziende territoriali, l’istituzione in Aziende ospedaliere di 4 poli (Bologna, Modena, Parma e Ferrara) in cui si registrava la presenza prevalente del triennio clinico formativo delle Facoltà di Medicina e Chirurgia e l’individuazione di una procedura con cui altri ospedali, in possesso di specifici elevati requisiti, potevano a loro volta essere costituiti in Aziende, per le strutture situate nei capoluoghi di provincia delle realtà territoriali complesse diverse da quelle sopra richiamate (come attuato per il S. Maria Nuova di Reggio Emilia).

Analogamente, a seguito dell’esito del referendum popolare del 1993 che “scorporava” le funzioni di prevenzione e controllo ambientale dalle competenze della legge 833/78, organizzandole autonomamente, si definì, con il Dipartimento di prevenzione, un nuovo assetto organizzativo “a rete” delle attività di assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro e per la tutela della salute della popolazione.

Inoltre, con la legge di contabilità n. 50 del 20 dicembre 1994 (anch’essa di iniziativa dell’Assessorato e della Giunta) si definirono organizzazione e funzionamento delle nuove Unità sanitarie locali secondo il modello aziendale, basato sul controllo di gestione come metodo permanente di verifica dei risultati, nonché sulla individuazione precisa dei livelli e ambiti di responsabilità di programmazione e controllo e delle attività gestionali e tecniche rivolte all’erogazione delle prestazioni.

Il complesso delle trasformazioni sopra descritte, con le numerose direttive e circolari di attuazione emanate dall’Assessorato (i regolamenti per la Conferenza dei Sindaci e la partecipazione e tutela dei cittadini nella fruizione dei servizi; specifiche normative approvate dalla Giunta in ordine al programma di investimenti per la realizzazione di 8 nuovi ospedali, ovvero la riqualificazione ed ampliamento di quelli esistenti, in attuazione dell’art. 20 della legge n.67 dell’11 marzo 1988; sul Piano Sangue e Plasma; sull’organizzazione delle attività di trapianto; la messa a disposizione dei beni delle Unità sanitarie locali, non più in uso, per programmi di carattere umanitario; l’adozione -legge n.29 del 20 luglio 1994- di misure e programmi per l’assistenza a domicilio di pazienti terminali) fa emergere un quadro di azioni realizzate, nell’arco della V legislatura, davvero di rilevante portata quantitativa e qualitativa.

Con risultati importanti anche sul piano della “sostenibilità” del sistema: quando con atto del Consiglio regionale n.2397 dell’8 marzo 1995 si deliberò l’assegnazione finanziaria definitiva da Fondo sanitario nazionale relativa all’anno 1995 per le Aziende sanitarie e per gli Istituti Ortopedici Rizzoli, lo “sbilancio” tra fabbisogno effettivo (pari a 7256 miliardi) accertato e autorizzato dalla Regione (che era il modello di funzionamento praticato per responsabilizzare al rispetto del vincolo di budget riconosciuto) e quote di trasferimenti nazionali era nell’ordine di 300 miliardi di lire: dunque molto prossimo ad un obiettivo di pareggio contabile (in difetto del ripiano integrativo statale da ottenere di prassi come riconoscimento a consuntivo) e certamente assai lontano dal disavanzo di 1498 miliardi di lire che costituiva la base del contenzioso con lo Stato per la copertura integrale (6261 miliardi) dei costi di finanziamento del sistema sanitario regionale all’inizio della legislatura del 1990. Non era perciò inappropriato il titolo “La Sanità risanata” che il n.33/1995 della Collana di Documentazione del Consiglio Regionale riporta nel dar conto del nuovo assetto del Servizio sanitario regionale attuato nel corso della V legislatura.

Con l’insediamento alla Presidenza della Giunta regionale di Pier Luigi Bersani il 6 luglio 1993, dopo le dimissioni di Enrico Boselli, oltre alla delega per la Sanità, Giuliano Barbolini assume anche quella per i Servizi sociali. L’accorpamento di entrambe le responsabilità sotto una unica direzione fu, nella situazione di quel periodo, una decisione assai provvida: la gestione dei processi di trasformazione nell’assetto della sanità e le prerogative dei Comuni nelle materie sociali, che la visione dei decreti n. 502/1992 e n. 517/1993 separava, poterono giovarsi, al contrario, di un approccio integrato, con il risultato di non spezzare il “continuum” dei servizi, a vantaggio delle esigenze ed aspettative delle persone in condizione di bisogno. Sono frutto di questa impostazione il profilo disegnato per l’organizzazione dei servizi di Distretto, la definizione del Progetto regionale “Tossicodipendenze”, con le direttive in ordine ai competenti servizi, la legge n.7 del 4 febbraio 1994 per la promozione e lo sviluppo della cooperazione sociale e, soprattutto, l’approvazione della legge 3 febbraio 1994, n.5, per la “Tutela e valorizzazione delle persone anziane – Interventi a favore di anziani non autosufficienti”.

La legge in questione rappresentò un punto alto di elaborazione e proposta dell’Assessorato e della Giunta, in stretto raccordo con la Commissione Sicurezza Sociale, il suo Presidente Frabboni e l’intero Consiglio, risultato di un ampio confronto e del contributo delle rappresentanze sociali, particolarmente quelle delle persone anziane.
In quegli anni era emerso acutamente, in correlazione con l’aumento della speranza di vita, il problema della non autosufficienza e della carenza di strutture e servizi (le RSA, Residenze Sanitarie Assistite) per farvi fronte. Si erano sviluppate forti azioni di sollecitazione (come la presentazione al Consiglio regionale di una legge di iniziativa popolare patrocinata dal consigliere parmense Tommasini) e si doveva garantire una risposta adeguata ad un problema reale, evitando al contempo il rischio di una eccessiva “sanitarizzazione”, rispetto alla possibilità di mantenere l’anziano nel suo contesto di abitudini e relazioni affettive, e salvaguardando la compatibilità finanziaria (data la restrizione di risorse operata dal Governo anche in questo campo).

Si realizzò una legge fortemente innovativa che “investiva” sulla valorizzazione delle persone anziane come risorsa della comunità, prefigurando cambiamenti a livello di società quanto all’organizzazione della mobilità e delle tipologie abitative, e, a fronte di una criticità, assicurava l’inserimento in residenze sanitarie assistite, ovvero, per le forme più lievi, un “assegno di cura” di sostegno alle famiglie che, in raccordo con i servizi, fossero in condizione di reggere la “presa in carico” del proprio anziano nell’ambito domestico abituale.

Elaborata in coincidenza con l’anno europeo delle persone anziane (1993), la legge fu poi presentata al Parlamento europeo, ricevendone plauso e riconoscimenti, ma soprattutto costituì una risposta di grande valore politico, culturale e socio-assistenziale, generalmente apprezzato, e punto di riferimento riconosciuto per molte altre realtà regionali, e sul piano nazionale.

Il provvedimento qualifica in termini complessivi il profilo dell’azione legislativa dell’Assemblea regionale e, nonostante 18 anni trascorsi, mantiene inalterate la sua modernità ed attuabilità. Diverse implicazioni di innovazione sociale e di organizzazione della mobilità urbana che attendono ancora di essere pienamente sviluppate, potrebbero figurare a buon titolo tra le azioni da promuovere in questo anno 2012, dedicato dall’Europa all’invecchiamento attivo e alla solidarietà tra le generazioni, nell’interesse non solo delle persone anziane, ma per la qualità complessiva di vita, relazioni e benessere delle nostre comunità.

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